L'alba senza testimoni
Il tempo, a Gallarate, sembrava rimanere sempre un passo indietro.
Come un cane vecchio che si ostina a seguire padrone e strada, anche se sente che qualcosa sta cambiando.
E noi, a metà degli anni Ottanta, eravamo i padroni di quel piccolo angolo di provincia lombarda.
Padroni inconsapevoli, certo.
Padroni solo del nostro entusiasmo.

Avevamo 23 anni quando aprimmo il Grammofono, una birreria al pianterreno di un edificio di cemento che era un pugno nell’occhio all’esterno, ma un rifugio caldo e imperfetto dentro.
Un piccolo palco triangolare in un angolo, un pianoforte appoggiato come una promessa, sopra il piano lo schermo di un THOMPSON, uno dei primi impianti per la visione di video su grande schermo. Ricordo ancora quel palchetto striminzito, ma già calcato da alcuni degli artisti americani più importanti all’epoca, una manciata dei quali divennero molto famosi negli anni a venire. Un nome tra tutti? Susan Vega alla sua prima apparizione italiana.
Era un locale di circa 200 metri quadrati,con le perline di legno scuro alle pareti ricoperte di poster d’autore, luci calde dentro nuvole di carta, tavoli recuperati da una vecchia mensa rivestiti di piastrelle rosso fuoco. Panche di legno con i cuscini cuciti dalla mamma.
Una costruzione artigianale, fatta di mani giovani, callose e sogni tirati fino a notte fonda. Ma orchestrata da un decoratore d’interni di rango. Enrico. Il mio amico Enrico, commilitone imboscato al reparto osservazione dell’ospedale militare di Milano come me, per sfuggire alla noia mortale della Leva!
Ma anche l’artefice delle decorazioni d’interno di appartamenti iconici in central park di proprietà di Gianni Agnelli o del barone Von Tissen…
E poi arrivarono i tossici, la polizia, ma anche clienti affezionati e canzoni di John Coltrane o dei Clash non necessariamente in quest’ordine, ma sempre a tutto volume: era la nostra realtà. Sporca, libera, vera.
Quando ci stancammo di spiegare ogni sera ai vicini di casa che no, non avevamo intenzione di trasformare la birreria in un centro di spaccio o in un ritrovo Jazz Punk, decidemmo di fare il salto di qualità e ci spostammo nel centro storico.
“La Ribalta” era tutto quello che il Grammofono non era.
Un locale piccolo, bianco, raffinato, adiacente alla piazza principale della ridente cittadina lombarda e a 50 metri dal Teatro delle Arti, il cinema più importante della città.
Era un corridoio stretto come una scommessa, dove si servivano cocktail deliziosi, si mangiava divinamente e ci si divertiva applaudendo ai frizzi di: Paolo Rossi, Palladino e Giorgio Faletti. Oppure ai lazzi di Aldo e Giovanni prima che si accodasse Giacomo.
Lì, nel cuore pulsante della Gallarate che voleva sentirsi parte del “jet set culturale de noi altri”, diventammo il posto dove bisognava essere.
Le cene dopo teatro con gli attori, i concerti improvvisati di Ben Vaughn, la visita di John Lurie con il suo sax stanco di sigarette e notti insonni.
Ricordi incisi come graffi su vinili usurati.
Trascorsero 13 anni. Tra la fine di un bicchiere e l’inizio di una nuova avventura, quando ancora i soldi sembravano piegarsi ai nostri sogni, decidemmo che si poteva osare ancora.
Così aprimmo la nostra terza creatura: Fuori Orario Cafè Cineclub.
Si trovava a solo 60 metri dalla Ribalta. Che era appena passata di mano avendo ceduto la parte legata alla ristorazione a Mr. Wu Shuangjun
Detto tra noi, Mr. Wu Shuangjun, ci stava tirando fuori dai guai. Si Perchè la Ribalta stava rischiando di ribaltarsi, i conti economici non tornavano, le superfici erano la metà di quelle del Grammofono,un dettaglio che pagammo molto caro. Il Cinese, che per decidersi all’acquisto aveva chiesto all’intera famiglia di dargli un parere collettivo. O forse era la famiglia che voleva vederci chiaro prima di sostenere il giovane Wu Shuangjun nell’impresa. I cinesi fanno così, si sostengono in questo modo, si autofinanziano all’interno di clan famigliari. Straordinario no? Quindi dovemmo accettare di buon grado, per mesi, una lunga processione di parenti e amici del nostro Wu. Oltre a tutti i pareri discussi fittamente tra loro in cinese, ma necessariamente di fronte a noi, come se li capissimo. Questa fase, estremamente debilitante per noi occidentali, portò alla vera trattativa nell’ufficio del mio commercialista, alla fine della quale letteralmente la mia temperatura corporea aveva raggiuto i 39 gradi. Ma andò a buon fine, cazzo! Da lì a poco seguì la fase di trasloco al nuovo locale.
Un po’ per risparmiare e un po’ per affezione trascinammo a mano il lungo bancone bianco della Ribalta, un gioiello in stile liberty firmato IBA di Bergamo, spingendolo a forza per i sessanta metri che ora ci separavano dall’EX Ribalta, dentro il nuovo locale, dove assunse la sua seconda livrea: lapislazzuli, dipinta a mano libera da un’artista locale.
L’ultimo tentativo.
Il colpo che doveva consolidare tutto e che invece ci dissanguò, un centimetro alla volta, come mille tagli di carta.
Viaggiare era sempre stata la nostra medicina.
Appena potevamo, scappavamo.
Per me iniziò presto:nel 1978 con un Maggiolone Volkswagen verde rattoppato con il fil di ferro, che ci proiettò, parlo di me e del mio amico Pinter, (attualmente un affermato ingegnere aereo-spaziale), in un trip spaziotemporale da Gallarate alla comune cristiana di Copenaghen all’età di 20 e 18 anni.
Poi ancora con Pinter, il Nord Africa con l’Honda 750 SS giallo canarino col 4 in 1 nero opaco e manubrio abbassato Marving dello stesso colore.
La nave cargo panamense su cui la caricammo io e Angela, mia moglie, anni dopo, quando diventata rossa e granturismo, la traghettammo da Carboneras in Spagna a Mostagadem in Algeria. E poi l’avventura dei 18 giorni imprevisti bloccati a bordo che ne seguirono, che forse vi racconterò in un altro libro.
L’Asia.
Le Americhe.
La vendita del nostro Duetto Alfa Romeo per finanziare un viaggio in Venezuela, Trinidad, Tobago.
Era tutta una corsa contro la normalità. Contro il diventare grandi senza saperlo.
Tra una fuga e l’altra, la dolcezza della vita sembrava ancora intatta.
Il vento nei capelli. Gli occhi aperti come ferite.
Fu in quel momento, in quella precarietà elegante e disperata,
che Lefkada si insinuò nei nostri discorsi.
La prima volta me ne parlò Luisa una cliente affezionata.
Una psicologa di Gallarate, seduta a uno dei tavoli traballanti della Ribalta,
mentre sorseggiava un cappuccino che sapeva già di nostalgia.
“Tizià, dovresti vedere Lefkada. È ancora vera. È un’isola che ti scava dentro.“
All’inizio fu solo una curiosità.
Poi, come succede con le cose destinate a lasciarti il segno, la curiosità divenne ossessione.
Il richiamo si fece voce concreta un pomeriggio di Aprile del 1994, leggendoBolina,
la rivista per navigatori a cui mi ero abbonato dopo il corso di Vela a Caprera.
Un annuncio breve, sgrammaticato:
Quota in vendita di una barca d’acciaio a Lefkada, pronta a navigare verso la Polinesia.
Non servì altro.
Io e il mio amico-nemico Fausto, socio in affari e compagno inconsapevole di fughe e di sogni sbilenchi, prenotammo due biglietti per la Grecia su un traghetto da Brindisi a Igoumenitsa.
Non sapevamo che stavamo imboccando la strada che avrebbe cambiato tutto.
La prima volta a Lefkada
Lefkada si presentò senza trucco.
Niente resort, niente spritz, niente “instagrammabilità”.
Solo pietre, ulivi contorti, spiagge abbandonate e un sole che spaccava i pensieri come mandorle secche.
A Nidri ci accolsero facce segnate dal mare.
Commercianti furbi, marinai senza più una barca,
capitani come Gherasimos, con il sorriso largo e le mani dure come corallo.
C’era odore di resina, di gasolio, di salsedine.
E una verità difficile da spiegare:
Lefkada non voleva niente da te.
Ti lasciava libero di perderti.
O di trovarti.
Da lì, tutto si mise in moto.
Aprii un ristorante di fronte al mare, ma un po defilato dal centro di Nidri
Lo chiamai“La Dolce Vita” — ironico e tragico, come ogni nome pensato per sfidare il destino.
I giorni si alternavano tra welcome meeting per i tour operator italiani,
pranzi deserti e fughe in barca nel pomeriggio.
Vivevamo con poco, sognavamo in grande.
Non c’erano smartphone.
Non c’erano social.
Non c’era nulla, se non il vento, il sale, e la sensazione netta che stessimo scrivendo qualcosa di nostro.
2001 L’incontro con Henning
Henning, il tedesco, arrivò come arrivano i messaggeri delle tempeste.
Un sito internet blu elettrico: Il trovavacanze.it, dove si potevano caricare delle pagine appena sufficienti a mostrare in poche foto quanto più possibile della tua struttura turistica per poi lanciare un messaggio nell’oceano digitale dentro una bottiglia virtuale.
Una visione strampalata.
Una possibilità.
Ci parlammo per telefono.
Gli proposi di vendere porta a porta la presenza digitale degli albergatori dell’isola.
Una pagina a testa per una manciata di euro.
Nessuna garanzia. Solo coraggio e fiducia.
E Henning disse sì.
E nacque il seme di Lefkadatour.com
Nacque sporco, zoppicante, invisibile.
Ma nacque.
Come tutte le cose che non chiedono permesso per esistere.
Come tutte le rivoluzioni vere.
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